Decine di blocchi di cemento bianco, alti circa un metro e mezzo, separati da strade tortuose che seguono, in saliscendi, la conformazione della collina. Il Cretto di Alberto Burri, a Gibellina, è una delle opere di land art più grandi del mondo. Vi siete mai chiesti come sia stato possibile realizzarla?

Esattamente 55 anni fa, nella notte fra il 14 e il 15 gennaio 1968, un terribile terremoto distrusse la Valle del Belice. Interi paesi, come Gibellina e Montevago, furono rasi al suolo, altri furono gravemente danneggiati. Dalla sera alla mattina decine di persone si ritrovarono senza più nulla, nel cuore dell’inverno e della Sicilia più remota. All’epoca, quel lembo di territorio italiano era distante da tutto, e non solo in senso geografico. Non c’erano strade moderne (l’autostrada che oggi attraversa la provincia di Trapani venne realizzata a partire dal 1971, proprio perché ci si rese conto che una simile infrastruttura era assolutamente indispensabile allo sviluppo dell’isola) e la vita quotidiana delle persone era scandita ancora dai ritmi delle stagioni e del lavoro nei campi.

Nei mesi successivi, moltissimi belicini emigrarono, anche grazie al sostegno economico del Governo italiano per i quali l’esodo dei siciliani era assai più semplice da gestire che la ricostruzione degli antichi villaggi. A Gibellina, nello specifico, non c’era neanche granché da ricostruire. Il terremoto era stato devastante per le vecchie case, l’abitato era un cumulo di macerie. Alla fine, venne stabilito che non era il caso di rimettere in piedi il villaggio, molto meglio ricostruirlo proprio ex novo, più verso il fondo valle, vicino alla nuova e moderna A29.
La storia della costruzione di Nuova Gibellina è affascinante. Ludovico Corrao, il sindaco di allora, era un uomo molto energico, e riuscì a far progredire i lavori con grande celerità. Inoltre, sul progetto di Marcello Fabbri (bellissimo se visto a tavolino ma privo, purtroppo, di anima) decise di innestare la sua idea di “città d’arte” dove case private, edifici pubblici, installazioni e decorazioni si sarebbero completate a vicenda, in un’inedita armonia nel segno dell’arte. Corrao chiamò architetti e artisti della scena nazionale a dare il proprio contributo a quel progetto visionario, un progetto grazie al quale gli abitanti di Gibellina furono traghettati dal Medioevo direttamente nel XX secolo.

Fra gli artisti interpellati da Corrao c’era anche Alberto Burri. Quando arrivò a Gibellina, lo scultore umbro trovò un cantiere. In tanti erano all’opera nella nuova città, e in tanti lo erano già stati, sicché Burri era perplesso su quel che avrebbe potuto ancora realizzare. Così si fece portare nel sito della vecchia Gibellina e subito, secondo quel che lui stesso ha raccontato, gli balenò l’idea: “Compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”.

Il Cretto non era un soggetto inedito per Burri, ma di certo lo era in quella dimensione, così subito si pose il problema di finanziare la sua realizzazione. Ludovico Corrao, tuttavia, non si perdeva d’animo tanto facilmente. Per cominciare chiese l’aiuto dell’esercito perché mettesse a disposizione uomini e mezzi per compattare le rovine. Le ruspe lavorarono per settimane, creando cumuli regolari di pietre, tegole, legni e ferri. Nel frattempo, fra i finanziamenti che era possibile richiedere per la ricostruzione post terremoto, il sindaco e i tecnici del Comune ne scovarono uno dedicato al rifacimento delle strade. Sembrava una follia, e invece Alberto Burri disegnò le linee del suo Cretto seguendo la pianta stradale della città, lo Stato italiano finanziò con un paio di miliardi di lire il rifacimento delle strade di Gibellina vecchia, e gli operai colarono il cemento su quelli che un tempo erano stati gli isolati. La prima parte dell’opera venne così realizzata fra il 1985 e il 1989, il completamento definitivo risale al 2015. Oggi il Cretto è uno straordinario monumento al ricordo, ma anche un luogo di grande bellezza e fascino. Si cammina fra i 122 blocchi pensando a quel che è stato, a quel che si cela sotto quel cemento, alle vite che si sono spezzate e a quelle che sono andate avanti, nonostante tutto.

Ludovico Corrao, nonostante le difficoltà, ha avuto ragione. L’arte è un patrimonio condiviso che impronta Gibellina e le dà una personalità unica. Qui ci sono sculture ovunque, gli edifici portano firme prestigiose, si svolgono eventi importanti come il Gibellina PhotoRoad, festival di fotografia e arti visive open air e site-specific che porta qui artisti da tutto il mondo (prossimo appuntamento dal 28 luglio al 30 settembre 2023). E ci sono ben due musei, uno dei quali, il MAC, è stato inaugurato nel 2021 e contiene opere di Renato Guttuso, Mario Schifano, Lia Pasqualino Noto, Fausto Pirandello e tanti altri. Qui è possibile fare una visita alla cieca, indossando una benda e facendosi illustrare le opere dal proprio accompagnatore: un’esperienza molto particolare.

L’altro museo, intitolato alle Trame Mediterranee, si trova in un baglio alle porte di Gibellina Nuova e celebra lo stretto legame che collega fra loro tutti i paesi del Mediterraneo. Ceramiche, gioielli, ricami, oggetti di uso comune e opere d’arte moderna e contemporanea rappresentano le tradizioni dei tre continenti che si affacciano sulle sponde del Mare Nostrum, per dimostrare che tutti i popoli del Mediterraneo condividono la stessa civiltà.

Nel museo viene dato ampio spazio anche alle scenografie degli spettacoli che nel tempo si sono svolti in occasione delle Orestiadi come la Montagna di Sale di Mimmo Paladino, le grandi macchine sceniche di Arnaldo Pomodoro e altro ancora. Il 15 gennaio, per celebrare la memoria del terremoto, la Fondazione Orestiadi ha coinvolto l’artista greco Costas Varotsos, che collocherà qui la sua “Spirale”, e Gianfranco Anastasio, con l’installazione “Il Doppio e il Rovescio”.