Il 4 maggio 1933 fu per Pantalica un giorno solenne. Quel giorno, infatti, la sua stazioncina ricevette un ospite decisamente altolocato: il re d’Italia Vittorio Emanuele III.

Re Vittorio Emanuele a Pantalica (ph. courtesy A. Randazzo)

Una rara foto mostra la minuta figura del re mentre sale a bordo del treno, fermo ad aspettarlo con un impettito capostazione a fianco. Mi chiedo cosa pensasse, quell’uomo, vedendosi passare davanti nientemeno che il re, in quella sua remotissima stazioncina siciliana. Se ne sta immobile, facendo un saluto militare, senza ardire di abbassare lo sguardo su quel soldo di cacio che era Vittorio Emanuele. Probabilmente si domandava perché mai il sovrano, e con lui tutti i nobili, i professori e i signoroni che aveva visto passare in stazione, si accollassero di venire fin laggiù. Cosa mai ci trovassero nelle quattro pietre sforacchiate di Pantalica.

Un’immagine della necropoli

Di fatto però, da quando era entrata in funzione la linea a scartamento ridotto che collegava Siracusa agli Iblei, giungendo fino a Vizzini, l’escursione alla misteriosa necropoli era diventata piuttosto alla moda. Nel 1939, era così popolare che la società che gestiva la linea ferroviaria pubblicò un opuscolo su Pantalica e il fiume Anapo che scorreva ai piedi della necropoli e il cui tracciato era stato seguito per la costruzione della linea ferrata.

Ancora la necropoli. Alcune tombe sono in punti difficilmente accesibili

Per la verità, all’epoca, di Pantalica non si sapeva granché, nonostante l’impegno a lungo profuso dall’archeologo Paolo Orsi, il primo a esplorare questi luoghi affascinanti, e nemmeno oggi, in effetti, si sa tanto di più. Non si sa, ad esempio, dove fosse esattamente il villaggio (identificato adesso con la mitica Hybla) in cui, nell’Età del Bronzo, si stabilirono prima i Sicani e subito dopo i Siculi, né come fosse, visto che è giunto fino a noi solo il basamento di un edificio con una mezza dozzina di stanze, risalente a dodici – tredici secoli prima di Cristo, il cosiddetto Anaktoron (palazzo del principe).

Non si conoscono i luoghi di culto né le usanze, se non a grandi linee. Non si sa come vivessero, anche se si presume che coltivassero la terra e che allevassero api, attività, quest’ultima, nella quale devono esser stati particolarmente bravi e che è proseguita fino ai giorni nostri: il miele ibleo viene citato con ardente golosità da Plinio, Teocrito e altri celebri autori (il miele è tuttora un eccellente prodotto di queste zone, tanto che la vicina Sortino è una delle “città del miele” italiane).

Tombe preistoriche di Pantalica

Soprattutto non si sa come abbiano fatto gli antichi abitanti di Pantalica/Hybla a scavare nella roccia 5000 tombe a grotticella senza l’aiuto di attrezzi metallici, creando la necropoli più grande d’Europa, ettari ed ettari di pareti calcaree a picco sul fiume Anapo, sforacchiate da migliaia di cavità, orbite di nero solido che interrompono il candore della pietra e i ciuffi di vegetazione, un ambiente più unico che raro.

Questa necropoli è oggi la più importante testimonianza del piccolo regno siculo di Hybla, del quale si conosce il nome di un unico re, Hyblon, il quale nell’VIII secolo, concesse a dei coloni greci un lembo del proprio territorio perché vi costruissero una polis, Megara Hyblea. Sul momento, a questo Hyblon i greci dovettero sembrare innocui, e di certo dovette essere ben contento che il nome del suo regno venisse celebrato in quello del villaggio dei nuovi arrivati, ma la sua valutazione si rivelò clamorosamente errata: neanche cent’anni dopo, furono proprio coloni greci, provenienti da Siracusa, a fondare Akrai e a decretare la fine di Hybla. Una fine definitiva e traumatica: dell’insediamento siculo non rimase nulla e per lungo tempo nessuno venne a vivere da queste parti.

Solo in epoca bizantina alcuni gruppi di persone vi si stabilirono, come testimoniano i resti di abitazioni e di piccole chiese rupestri – l’oratorio di San Micidario, di San Nicolicchio e del Crocifisso, con qualche traccia di affreschi – realizzati allargando alcune tombe dell’Età del Bronzo, ma dopo di loro il luogo venne via via abbandonato. Nel Duecento non c’era più nessuno e la zona rimase più o meno deserta fino a quando, nel 1915, iniziarono i lavori per la ferrovia (dismessa e smontata nel 1956).

Il corso dell’Anapo

Oggi il tracciato del treno è una lunga strada bianca che si snoda lungo il corso dell’Anapo, un nastro lucentissimo che scorre fra pozze e cascatelle immergendosi fra platani, pioppi, salici e cespugli verdeggianti. È il principale percorso escursionistico per chi vuol conoscere questa che oggi è una delle riserve naturali più grandi e interessanti della Sicilia orientale. Un itinerario suggestivo che consente di ammirare la bellezza dell’ambiente, osservare una quantità di uccelli e visitare un paio di cavità naturali, tra cui la Grotta delle Meraviglie e quella dei Pipistrelli.

La Grotta dei Pipistrelli (ph. Carlo Columba via WikiCommons)

La necropoli è appena un po’ più su e per vederla bene c’è la comoda strada che si snoda a mezz’altezza nella cava. Fra euforbie, oleandri e macchie di fichi d’India, lo sguardo spazia liberamente sulle tante grotticelle artificiali della necropoli e facilmente si può comprendere perché l’UNESCO abbia stabilito che questo posto debba essere uno dei Patrimoni dell’Umanità.

Tutte le foto di questo articolo (a eccezione della foto storica e di quella della Grotta dei Pipistrelli) sono state gentilmente concesse da Luca Scamporlino).